Editoriale di Mario Pagliaro, 12 aprile 2007:

Scienza e management: Alleanza nel segno della cultura

«Nokia, Ericsson, e Motorola -- dice il guru dell’usabilità del web, Jakob Nielsen -- hanno molti grandi designers che ne sanno molto più di Apple riguardo al modo in cui le persone usano i dispositivi mobili. Ma a differenza della Apple in cui Steve Jobs sveglia il capo della progettazione nel mezzo della notte chiedendogli di semplificare l’iPhone, loro sono privi del supporto degli executives nel dare priorità all’esperienza degli utenti». 

Questo semplice fatto che ci riguarda tutti, e cioé che la gran parte dei prodotti hi-tech sono malprogettati e difficili da usare, è una conseguenza pratica della scelta metodologica di escludere la scienza dai programmi formativi delle élites manageriali di tutto il mondo.

La formazione dei manager delle grandi imprese multinazionali si svolge in Scuole universitarie pubbliche e private di grande prestigio: Yale e Harvard negli USA; l’Insead e l’Ena in Francia; l’Imd in Svizzera; la London School of Economics o la “Said” School dell’Università di Oxford nel Regno Unito.

Invariabilmente, i programmi formativi offerti alla clientela hanno in comune l’assenza della scienza: niente fisica, matematica, chimica e biologia, fra i corsi dei manager contemporanei.

I manager dunque in generale non sono in grado di condurre – to lead – i processi di innovazione tecnologica, delegati a Chief technology officers generalmente di formazione ingegneristica.

Una formazione manageriale in cui i fondamenti della scienza fossero considerati fra quelli necessari alla cultura generale del management, darebbe invece ai manager le competenze necessarie per valutare criticamente l’innovazione tecnologica ed anche, ad esempio, l’impatto ambientale e sociale delle attività dell’impresa.

L’innovazione come fatto sociale ed umano

Dare ai manager una formazione scientifica adeguata accanto ad una formazione umanistica altrettanto solida darebbe loro le capacità di gestire l’innovazione non come fatto tecnico, ma come un percorso eminentemente sociale ed umano.

In questo modo sarebbe la classe manageriale a recepire nel processo dell’innovazione le istanze umane e sociali che troppo spesso non vengono recepite tanto nella produzione dei beni e dei servizi (vedi i prodotti hi-tech), che nella gestione delle persone.

Lo sviluppo storico delle scuole di formazione manageriale è analogo a quello delle scuole scientifiche: specializzazione e divisione del lavoro. Ma proprio come nell’industria la divisione del lavoro e la parcellizzazione delle competenze hanno prodotto enormi aumenti di produttività per arrivare alla crisi odierna, così anche l’educazione di scienziati e manager deve cambiare per ritrovare flessibilità e versatilità nel gestire in modo efficace -- con il necessario coraggio e con le necessaria visione -- le enormi sfide che sono di fronte tanto alle imprese che alla scienza.

Oltre quindi che insegnare agli scienziati i fondamenti del management e della comunicazione; e ai manager quelli della scienza, noi pensiamo sia necessaria un’opera più profonda e sottile: ri(acculturare) la scienza, integrandone i fondamenti nella cultura generale delle classi dirigenti.

Il compito di uno scienziato è quello di produrre nuova conoscenza mentre le applicazioni riguardano la tecnica. Raramente, poi, le qualità di scienziato si accompagnano a quelle di manager e comunicatore. Eppure, questo non dovrebbe impedirci di ripensare la formazione scientifica per integrarvi quegli elementi di storia, di filosofia, di sociologia e di economia ormai indispensabili alla professione scientifica nel 21esimo secolo.

Ammettendo le proprie lacune culturali, gli scienziati -- prima di voler correggere quelle dei profani -- devono aggiungere ai propri studi quelli necessari ad una migliore conoscenza del pubblico. Una nuova e più vasta formazione culturale darà ai giovani scienziati italiani le risorse per fronteggiare i pericoli della formazione scientifica ultraspecializzata; e soprattutto per far cessare quell’emarginazione sociale ritrovata dal Censis che mette a rischio il sostegno finanziario necessario alla ricerca scientifica e, più ancora, lo stesso senso della professione scientifica nella società contemporanea.

Gli scienziati? Non se li fila nessuno

Un recente studio del Censis mostrava chiaramente come in Italia -- l’ottavo Paese industriale del mondo -- gli scienziati siano considerati come un gruppo sociale di particolare debolezza.

Gli iscritti alle facoltà scientifiche sono pochi e ormai le imprese italiane importano dall’estero chimici, matematici, fisici e ingegneri. Dall’altra parte, le università lamentano difficoltà proprio nel relazionarsi con le imprese e hanno avviato in tutta Italia molti progetti di collaborazione (stage, borse di studio ecc.) col mondo produttivo.

Eppure, ai numerosi Festival scientifici le sale si riempiono di giovani che affollano le sale per ascoltare matematici e scienziati parlare delle loro esoteriche discipline in un clamoroso paradosso epistemologico e culturale: perché mai la conoscenza scientifica ha raggiunto un tale livello di elaborazione e sottigliezza e mai è stata così parcellizzata e incapace di sintesi; mai la diffusione della scienza ha avuto a disposizione simili mezzi (media, libri, musei, internet ecc.) e mai si è assistito alla diffusione di massa di pratiche sociali (medicina alternativa, new age) che rifiutano la scienza contemporanea.

I giovani laureati italiani affollano i migliori dipartimenti scientifici internazionali in USA, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito. Per un loro ritorno in Italia, ci si affida al rilancio della spesa pubblica e privata per le attività di ricerca fondamentale ed applicata; e all’introduzione di un sistema di selezione basato finalmente sul merito e non sulle appartenenze.

L’innovazione come fatto sociale ed umano

Ma c’è un altro modo per creare nel corpo sociale un interesse e un ruolo nuovo per la professione scientifica: lavorare sulla formazione culturale tanto dei giovani scienziati che dei manager. D’altra parte, l’Italia continua ad essere l’unico grande Paese industrializzato ad essere privo di un Istituto nazionale di management.

Mentre le nostre imprese -- assediate dalla ipercompetizione globale -- hanno l’urgente necessità di aumentare radicalmente la produttività del lavoro e la qualità dei prodotti, noi abbiamo due sole università di management, entrambe private e frequentate a Milano e a Roma essenzialmente dai figli di imprenditori e professionisti, che evidentemente non possono formare i manager capaci di trasformare i milioni di medie e piccole imprese italiane in questo senso.

In sintesi, abbiamo bisogno di più manager e di più scienziati di alto livello, che non emigrino andando a sostenere la concorrenza straniera e invece diano quel contributo di conoscenza e capacità operative di cui il Paese ha cruciale bisogno. E per far seguire alle idee i fatti, e dare un contributo a tale evoluzione, abbiamo fondato in Sicilia l’Institute for Scientific Methodology (www.i-sem.net) che il prossimo gennaio inaugura il Master “Paul K. Feyerabend” aperto a laureati di tutte le discipline.

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Questo articolo è stato pubblicato da Nòva24 il 12 aprile 2007 con il titolo Fisica e chimica per i manager di domani.


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