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Newsletter di Mario Pagliaro, 22 aprile, 2005:
Sommario:
La crisi pressoché globale dell'economia italiana richiede urgentemente la rifondazione dell'Istituto di ricostruzione industriale e la fondazione di una nuova Scuola nazionale di management.
Economia italiana: una débâcle annunciataGuardando ai vestiti di Ciro Paone o agli elettrodomestici di Vittorio Merloni si resterà ammirati tanto quanto nell'indossare le stoffe dei Loro Piana, nell'usare le vernici ecologiche dei Fratelli Atria o nel seguire i corsi di coaching di Giovanna D'Alessio. Sono, a tutti gli effetti, prodotti e servizi di eccellenza: sintesi di conoscenze, competenza, confronto internazionale, studio e duro lavoro. |
E sono soltanto quattro fra le migliaia di altri possibili esempi dei beni e dei servizi offerti dalle medie e piccole imprese italiane che con i loro successo sostengono la nostra economia e quindi il nostro tenore di vita.
Sono imprese che guadagnano poco: meno del 10% del fatturato, perché esposte al mare magno della competizione internazionale; mentre quelle impegnate nei settori tradizionali a basso contenuto tecnologico -- piastrelle, tondino di ferro, stoffe di basso pregio, tegole e cemento -- sono costrette alla ristrutturazione o alla chiusura dalla concorrenza le imprese a basso costo del lavoro dei più grandi Paesi del mondo (Cina, India, Russia e Brasile) e dai Paesi dell'est europeo e nordafricani.
Quelle che non ci sono più, sono le grandi imprese attive nei settori ad alto contenuto tecnologico: chimica, informatica, farmaceutica, infrastrutture e progettazione, aeronautica.
Spiegava infatti il grande economista Marcello de Cecco come:
"Il ristagno dell’economia negli anni ’90, decennio fra i più deludenti della nostra storia, non è attribuibile al settore bancario e finanziario. Ha tutt'altre, e ben più profonde, radici.
"L’Italia non può più permettersi nessuna politica indipendente. Ciampi e Amato sul debito pubblico scartarono l’ipotesi di un semiconsolidamento del debito che avrebbe risolto il problema dello stock accumulato e avrebbe posto la lira al riparo dell’oscillazione dei tassi internazionali, e optarono invece per un sistema totalmente incentrato sulle grandi istituzioni finanziarie di Londra e New York". (Le Privatizzazioni, 2000)
D'altra parte, la verità non è ciò che è dimostrabile. Ma ciò che è ineluttabile.
Per valutare quindi la qualità della politica di privatizzazioni intrapresa nel 1993 dal cosiddetto "governo dei professori", e poi proseguita senza particolari remore da tutti quelli successivi, possiamo guardarne agli esiti: la situazione economica italiana alla metà del primo decennio dei 2000.
In Sicilia, Puglia e Campania -- le prime regioni agricole del Paese -- gli agricoltori protestano esponendo poveri striscioni rivolti al ministro: "Alemanno. Gli agricoltori sono in ginocchio e i consumatori pure". Mentre scrivo, Telecom Italia ha 47 miliardi di debiti a fronte di 60 di fatturato, non lontano dal record di Parmalat: che aveva un debito pari al fatturato (14 miliardi di euro, rispettivamente). Però, pratica i prezzi più elevati di Europa contribuendo a non far diffondere l'uso delle nuove tecnologie. Infine, ci sono le grandi imprese di costruzioni: Astaldi, Caltagirone, Pizzarotti e la Impregilo appena ceduta. Nessuna fra loro fattura la metà di quanto fatturi la spagnola Sacyr (e la Spagna ha un Pil circa metà di quello italiano). |
Le grandi imprese pubbliche costruite dall'Iri in 4 generazioni sono state cancellate; ma quelle che hanno resistito alle scelte di politica economica intraprese in Italia dal 1992 sono -- come ha riconosciuto con onestà intellettuale pure Osvaldo De Paolini -- le uniche grandi imprese italiane:
"Scambiando la put option con un paio di miliardi di dollari, la Fiat degli avvocati smonterà la Fiat dell’Avvocato ma difficilmente riuscirà a rimontare un’altra Fiat... Il ruolo dell’azienda torinese nel sistema industriale italiano, per non parlare del suo sogno di egemonia europea, sono infatti finiti, sepolti sotto una crisi che prima di essere finanziaria è stata di strategia, di prodotto, di management e, in definitiva, di cultura.
"Dovremmo riflettere senza paraocchi ideologici su un fatto e suoi suoi perché. Il fatto è questo: se nella grande industria manifatturiera l’Italia ha oggi una presenza importante lo deve a tre imprese pubbliche come Finmeccanica, Fincantieri e STMicroelectronics.
"Agusta che vince la gara per gli elicotteri del presidente americano, Fincantieri che conquista la leadership mondiale nelle navi da crociera e nei traghetti oltre che primeggiare nel militare e nei motori, StM che diventa un gigante mondiale dei microchip sono altrettante storie di successo imprenditoriale che non hanno bisogno di scomodare l’esempio francese per giustificarsi né l’ascendenza statale per essere spiegate.
"A spiegarle (e siamo al perché di questo fatto) sono gli uomini che hanno creduto nella forza vincente di un prodotto fatto con competenza, con passione e con investimenti non solo adeguati ma anche mirati. Senza investire in ricerca il 15-20% del fatturato annuo, Pistorio non avrebbe trasformato la decotta Sgs di vent’anni fa nella StM di oggi, sia pure con tutti i problemi di mercato che ossi si trova ad affrontare. Senza la scelta di puntare sugli elicotteri invece di strapagare uno strapuntino sull’Airbus, Finmeccanica non sarebbe arrivata alla Casa Bianca.
"Senza reinventare il concetto di nave, lasciando fare lo scafo ai cantieri asiatici per poi riempirlo del valore aggiunto italiano fatto di tecnologia, design e stile di vita, Fincantieri non avrebbe riconquistato il mercato delle crociere.
"Domanda: se c’è riuscita la mano pubblica, perché non dovrebbe riuscirci quella privata? A Torino e dintorni l’onere della risposta." (Finanza e Mercati, 2 febbraio 2005)
Indirettamente, la risposta a De Paolini la dava pochi giorni dopo Elserino Piol nel raccontare la storia della fine dell'informativa italiana a Elena Comelli:
"Le difficoltà di Olivetti, come di tutte le altre aziende del settore in quel periodo, derivarono dalla progressiva riduzione dei margini. Per limitare lo strapotere di Ibm, infatti, negli anni '80 tutti noi produttori cominciammo a supportare standard alternativi: aperti e che costavano di meno.
"Questo mise molto in difficoltà Ibm, ma ne soffrimmo tutti perché sotto l'ombrello dei margini Ibm (oltre il 50%) si lavorava comodi. All'improvviso, nell'89, i margini per i PC scesero anche sotto il 20%. Per questo Olivetti si spostò verso le telecomunicazioni".
Capito?
I nostri imprenditori amano lavorare con margini del 50%; e quando i profitti diventano normali, inferiori al 10%, scatta la fuga verso i settori ancora protetti dove si fanno affari lucrosi senza patemi. E così De Benedetti trasforma Olivetti in Omnitel; gli stabilimenti di Ivrea vengono chiusi e abbandonati; fino a quando, naturalmente, Omnitel viene ceduta ai britannici di Vodafone.
Residenza in Svizzera o a Montecarlo, per i nostri imprenditori. E sono risolti pure i problemi di una fastidiosa tassazione del reddito progressiva che hanno spinto Massimo Mucchetti a citare il carteggio fra Benito Mussolini e Alberto Beneduce nell'introduzione del suo illuminante Licenziare i Padroni? (2003): "Quando ero socialista ero convinto che i padroni italiani fossero dei coglioni. Ora che sono capo del governo, ne sono certo: i grandi industriali italiani sono dei gran coglioni".
Argomentazioni simili, le esprime Francesco Giavazzi nei formidabili editoriali scritti per il Corriere della Sera: finanziati dalle banche privatizzate, i capitalisti italiani fuggono dalla concorrenza e si rifugiano nel mercato dei servizi nazionale. Dove le regole sono state costruite per tutelare gli operatori economici dalla concorrenza e i margini sono alti: servizi pubblici, telefonia, luce e gas.
Rimuovete le protezioni e liberalizzate, suggerisce al governo Giavazzi, e gli imprenditori italiani torneranno ad investire e a rischiare.
Ma è davvero così? Esiste una tradizione storica, non dico di illuminato patriottismo, ma appena di apertura agli interessi nazionali dell'imprenditoria privata italiana? O si tratta di un'utopica astrazione? Di qualcosa che non è mai esistito?
Non la pensa così il grande Pasquale Pistorio che a Parigi, nel lasciare due mesi fa orgoglioso la guida di ST con 450 milioni di utili su 10 miliardi di euro di fatturato, auspicava come: "fosse per me, privatizzerei tutto".
Proprio sicuro -- Cavalier Pistorio -- che un'azionista privato con profitti al 4,5% lascerebbe il proprio capitale investito in una società come ST?
Oppure metterebbe i suoi soldi nel conto "Arancio" della Ing Bank?
Forse anche il professor Giavazzi qualche dubbio sulle attitudini storiche al rischio dei nostri imprenditori deve esserselo fatto venire.
Una riposta per esempio può darcela il governatore Fazio che a difendere l'Antonveneta dalla scalata olandese di Abn-Amro ha trovato solo una volenterosa Banca popolare; mentre una banca di Stato spagnola si comperava la gloriosa Banca nazionale del lavoro finita nelle mani di imprenditori interessati alla migliore offerta per le loro quote azionarie.
In attesa, dunque, di un'imprenditoria Godot che non è mai arrivata, sono state le Regioni italiane dove è in corso una rapida deindustrializzazione a porre le basi per una rifondazione dell'Istituto di ricostruzione industriale fondando -- ineluttabilmente: Regione dopo Regione -- le loro piccole Iri.
In Friuli il governo regionale rilancia Friulia e il pastificio Zara apre il nuovo stabilimento; quello lombardo rilancia la Finlombarda che cerca di finanziare le imprese ad alta tecnologia. In Lazio il presidente uscente usa la Filas per finanziare la missione spaziale russa di Vittori e le imprese laziali che vi condurranno i loro esperimenti; e iniziative simili le lanciano Piemonte, Emilia Romagna, Umbria, Veneto...
Dove sono, ad esempio, gli imprenditori che finanziano la banda larga nei Paesi del vasto entroterra italiano?
Non ci sono.
E così Sviluppo Italia fonda Infratel e la fa lei, la cablatura, ché altrimenti non arriverà mai.
Dice Massimo Caputi: "In Italia, da anni ormai, non abbiamo una politica industriale". E invece di aspettare che i governi della Repubblica tornino ad elaborarne una dotata di un minimo di senso, fa intervenire la sua Sviluppo Italia nei settori economici più disparati mentre Fintecna in silenzio raccoglie la preziosa eredità di Iritecna -- la Scuola tecnica dello Stato chiusa dall'oggi al domani in un modo che -- spiega ancora De Cecco -- "lascia sbigottiti".
Una rifondazione in piccolo che richiede adesso una scelta coraggiosa: rifondare l'Istituto di ricostruzione industriale nazionale e farlo funzionare.
E d'altra parte, la crescita dell'economia è necessaria a ridurre il debito pubblico monstre lasciato in eredità non dall'Iri o dall'Eni, che continua a registrare utili record, ma dalle folli politiche pubbliche su pensioni e sanità per cui le professoresse andavano in pensione a 38 anni, e ospedali giganteschi pieni di macchinari e personale inutilizzati divoravano quote sempre crescenti della ricchezza nazionale.
Ma non ci sarà alcun futuro per l'economia italiana senza giovani manager colti e capaci.
Il fallimento del capitalismo familiare italiano di fronte le sfide della globalizzazione economica è reso infatti evidente anche dalla carenza di manager capaci di trasformare le nostre imprese nel segno della qualità, della produttività, della internazionalizzazione e dell'innovazione radicale richiesta da una competizione senza precedenti storici.
Dove sono questi ragazzi?
Le banche, il governo e le medie imprese li prendono dalle multinazionali della consulenza: McKinsey, Bain, la Arthur Andersen poi fallita.
Passera, Profumo, Arpe, Capuano, Colao, Scaroni e Caio, ad esempio, sono tutti ex consulenti McKinsey.
Possiamo discutere della loro formazione culturale; ma palesemente, a differenza dei loro colleghi di Francia, Spagna, Giappone e Germania, nessuno di loro ha ricevuto una formazione culturale minimamente orientata allo sviluppo nazionale.
Pertanto, non possiamo più fare a meno di dotarci di una Scuola nazionale di management.
E d'accordo con Giavazzi -- che spiegava come il banchiere di Schroeders Wim Bishoff scegliesse i suoi dirigenti fra i laureati in greco antico e in matematica pura di Oxford, invece che fra i tecnocrati diplomati alla London School of Economics ("mi ripetono quanto ho già letto sul Financial Times venendo qui") -- dovremo costruire questa Scuola pubblica a Roma facendovi studiare filosofia, storia, storia delle idee, matematica e psicologia; e ammettendone gratuitamente ai corsi 100 ragazzi ogni anno dopo una selezione di accesso eguale a quella della Normale di Pisa: basata non sul censo, ma su attitudini, cultura e capacità.
Tutto il contrario, cioè, di quello che avviene nelle nostre piccole e marginali Università commerciali private dove i figli dei notabili del Sud e degli imprenditori italiani imparano annoiati tecniche di management e di ragioneria d'importazione americana di rapida obsolescenza insegnate da docenti ancora più annoiati di loro.
Marcello de Cecco et al., Le privatizzazioni nell'industria manifatturiera italiana (2000); Massimo Mucchetti, Licenziare i padroni? (2003); Mario Pagliaro, Scenario: Qualità (2005).
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