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Newsletter di Mario Pagliaro, 6 febbraio, 2006:
Il più grande sociologo italiano, Giuseppe De Rita, racconta l'affascinante, e sconosciuta, vicenda delle Partecipazioni statali intervenendo il 6 febbraio 2006 alla terza edizione del Seminario "Marcello Carapezza" dedicato dal Gruppo di ricerca di Mario Pagliaro alla memoria del grande geochimico siciliano.Sommario:
Il fondatore del Censis racconta al seminario "Marcello Carapezza" l'affascinante, e sconosciuta, vicenda delle Partecipazioni Statali.
«Dopo Francesco Giavazzi ed Andrea Granelli, siamo particolarmente felici -- ha detto Mario Pagliaro nel presentarlo -- di avere con noi il più grande sociologo italiano: il più autorevole intellettuale esponente del cattolicesimo democratico.
«All'inizio degli anni '60 De Rita fonda la sezione sociologica dello Svimez. Erano 12 persone, ma nel 1963 consegnano a Pasquale Saraceno un documento -- il Rapporto Saraceno del 1963 -- che avrà un grande successo. Saraceno si accorge di non controllare più quei ragazzi e avendo una "concezione mezzadrile dell'azienda, per cui dove non controllava, distruggeva" li licenzia.
«Allora, nel 1964 De Rita fonda con Gino Martinoli, ingegnere e manager scuola Olivetti, il Centro studi investimenti sociali: il Censis.
«Facevano e fanno "autocoscienza della società italiana".
A dicembre pubblicano un Rapporto annuale che conoscete tutti. Lo scorso dicembre per esempio ci hanno spiegato che l'Italia non è affatto un Paese in declino come dicono quelli dell'Economist ("Gli esperti dell'Economist non vivono in Italia, vengono qui solo per tre, quattro settimane, e intervistano Capezzone, i radicali e qualche imprenditore, e poi parlano di declino. E neanche Carlo De Benedetti -- che parla di collasso dell'Italia -- vive in Italia, sta in un rompighiaccio sull'Antartide").
«De Benedetti -- mi diceva De Rita venendo qui --gli ha subito mandato un fax spiegando che lui non viveva più sul rompighiaccio e che era il capo di un'azienda finanziaria sana e profittevole. Ho chiesto al professor De Rita di raccontarci quale fu l'ethos -- lo spirito -- delle Partecipazioni statali: le grandi aziende controllate dallo Stato che forse alcuni fra voi non conoscono mentre gli altri pensano siano stati solo dei carrozzoni mangiasoldi.
«Eppure, noi italiani non abbiamo più nessuna grande impresa privata presente sul mercato internazionale. Mentre Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri e persino STMicroelectronics invece competono con successo proprio nel mercato globale. E queste aziende sono ancora oggi -- tutte -- Partecipazioni statali. Come mai?
«Prima di lasciare la parola al professore -- ha concluso Pagliaro -- vorrei ricordare la vicenda dell'eruzione dell'Etna del 1985 quando Marcello Carapezza e Franco Barberi decisero di provare a deviare con gli esplosivi la colata lavica giunta ormai a breve distanza da Zafferana. La lava deviata sarebbe finita nella Valle del Bove; e ad Antonio Cederna che parlava di distruzione ecologica, Marcello rispose andando a guardare.
«Pungitopo. Si trattava di una parte della valle con molto pungitopo. E a Cederna rispose sulla stampa parlando di anandrecologia: un'ecologia fatta senza tenere in considerazione l'uomo. Non c'erano certezze, ma il metodo funzionò talmente bene che oggi è lo standard in tutti i Paesi minacciati dal vulcanismo.
«Il professor De Rita appartiene alla stessa grande tradizione dei migliori intellettuali italiani».
Beneduce aveva queste intuizioni: bisognava salvare le banche e si faceva l'Iri; e poi l'Imi. E poi, nel '32-'33, anche l'Inps. Se guardate al meccanismo di crescita di una classe dirigente dietro Beneduce vi accorgete che quella era l'unica classe dirigente disponibile. Gli anni '50 avevano qualcosa di mitico: c'era un rapporto che non abbiamo più avuto: Mattioli e Menichella passavano e venivano a trovarci allo Svimez in via Paesiello.
Raffaele Mattioli andava al ristorante Il Buco a Roma; era amico di Sraffa e collezionista di libri antichi e potevate avvicinarlo e parlargli tranquillamente. Anche il modo di formarsi, di questa classe dirigente, si svolgeva in modo semplice: Cuccia era genero di Beneduce; Menichella aveva chiesto a Mattioli se conosceva qualcuno capace di rivedergli i conti delle terre sue di Nocera e questi gli aveva indicata Pasquale Saraceno.
Saraceno non diventerà nemmeno direttore generale dell'Iri, superato da quelli messi lì in base alle indicazioni di lottizzazione dei Partiti degli anni successivi. Era questo l'Iri nel '55: l'ufficio più importante era l'ispettorato con un grande personaggio che si chiamava Cortesi.
Facevano solo le verifiche di azienda in un conglomerato gestito con un rigore senza precedenti da una grande classe dirigente.
Tutta la programmazione italiana dal Piano Vanoni al Piano Giolitti fra il '54 e il '64 sono opera dell'Ufficio studi Iri e di noi dello Svimez. Era una grande capacità di essere e creare classe dirigente.
Cinquanta anni dopo avremo una Gepi che al confronto era una barzelletta. Ora, perché si trasformerà in un grande conglomerato polisettoriale che alcuni hanno definito un mostro (e io non sono d'accordo)?
Cioè in un organismo senza articolazione: un vero e proprio conglomerato che perderà le caratteristiche di élite diventando una specie di supergruppo.
Le persone che avevano fatto l'Iri vengono emarginate: Menichella va alla Banca d'Italia; Saraceno diventa il ghost writer di Moro; Cortesi va a fare il presidente delle collegate; Mattioli se ne torna a Milano a gestirsi la sua banca e Cuccia si fa la Mediobanca.
Martinoli venne chiamato a fare il calcolo del cabotaggio in India nel '55: cioè, uno come Martinoli si metteva a studiare un problema come questo... Era la cultura elitaria di un piccolo gruppo di amici che facevano formazione senza precedenti: Saraceno è stato il più grande formatore di élite degli anni '50.
I migliori cervelli da Claudio Napoleoni a Celestino Segni sino al futuro presidente di Italtel Garsini, Marzani eccetera eccetera.
L'impegno che Saraceno voleva da noi era di mettersi insieme alle altre élites. Fare, ad esempio, rapporti stretti con l'ufficio studio dell'Eni: Giorgio Fuà, Giorgio Ruffolo, Paolo Sylos Labini e poi Savona e gli uomini di Carli... A un certo punto, invece, è scomparso tutto.
Perché? Perché all'Iri se c'era Petrilli era perché c'era Fanfani; e se c'era Sette era perché ad essere potente nella Dc era Moro. E poi c'erano gli "alani" -- Calabria e Viezzoli -- che gestivano i rapporti politici con i partiti. Erano loro e non c'erto Petrilli, a farlo. E poi, certo, Ettore Bernabei.
Lo stesso Saraceno, che negli anni '60 aveva un potere enorme essendo l'unico che Moro ascoltava davvero, non è riuscito a convincerlo. Perché, allora, era così debole? Perché non c'era la garanzia politica?
Perché i ministri delle Partecipazioni statali di fatto non erano ministri di niente. L'unico che provò ad affrancarsi fu Granelli -- il papà di Andrea che voi avete conosciuto -- ma dopo qualche mese smise di provarci.
Ci fu una modifica della filosofia alla quale non siamo riusciti a sfuggire. Il grande gruppo polisettoriale integrato era figlio di una politica di opzione culturale che era quella dello Stato come soggetto generale di sviluppo.
Sviluppo per una società che usciva dalla guerra senza soggetti perché l'Italia degli anni '50 e '60 era un'economia senza soggetti: dai trasporti alle telecomunicazioni non c'era nessuno.
A Roma ad esempio il servizio telefonico era garantito dalla Teti. Ripeto: non c'erano soggetti. Oggi ci sono 5 milioni di piccoli imprenditori. Fra il '71 e l'81 le imprese sono passate da 470mila a 950mila. E nel 1961 ne avevamo 200mila.
Quindi, nacque questa idea -- della quale anche io sono responsabile -- dello Stato che aveva il diritto-dovere di essere soggetto dello sviluppo indicando quali fossero le prospettive e il modo di perseguirle. Schema sviluppo del reddito 1955-1965: era il Piano Vanoni. E se fa la programmazione, lo Stato, allora può e deve anche intervenire nell'economia e nel Mezzogiorno. Quindi, si fa la Cassa per il Mezzogiorno.
Io ho scritto con De Vito la legge sullo sviluppo della soggettività meridionale nel 1986. Ma nel 1955, l'intervento diretto dello Stato aveva senso perché al sud non c'era alcuna soggettualità. Nel 1993 forse no. Ma allora, sì.
L'Iri dunque li comprava, a quelli che facevano i telefoni e le poche linee di allora. E quindi nasce la Sip, poi Telecom. E se oggi abbiamo una grande impresa delle telecomunicazioni è solo perché c'era la Stet. Non certo grazie a Colaninno o a Tronchetti che avendo comprato a debito non hanno una lira per fare investimenti ma usano il fatturato solo per pagare i debiti con le banche.
Quindi, la Finelettrica che poi passo all'Enel. E poi c'era la Finmare: le aziende marittime venivano comprate e messe dentro.
La Finmeccanica oggi è diventata azienda in proprio ma allora era una federazione di aziende meccaniche acquisite dallo Stato. Non c'erano Italstrade e le costruzioni di cui parlavo con Pagliaro venendo qui, e che poi saranno la causa di molti problemi.
Da un parte quindi i filosofi dicevano: lo Stato è soggetto generale di sviluppo. Al Paese serve il terzo centro siderurgico; e allora lo faccio a Taranto dove altrimenti non lo farà nessun altro; serve un grande porto di cabotaggio e allora lo faccio in Calabria dove c'è il più grande del mediterraneo; l'Alfa Romeo la salvo e mi metto a produrre automobili perché servono al Paese...
Certo, errori che si pagano, ma io penso che la storia di questo Paese sarebbe stata diversa senza le nostre idee. Oggi a produrre e a fare siamo pure in troppi. Ma allora non c'era nessun il mercato. Dov'era il mercato della siderurgia italiana? E quello delle telefonia? Dov'era quello dell'elettricità o del gas o del petrolio? Oggi, anche se Telecom non ci fosse, ci sono 2 o 3 società che possono entrare; nella telematica, per dire, c'è di tutto.
Ma allora: chi c'era? Eppure, anche oggi ci sono alcuni settori dove non ci sono soggetti: non sarebbe male, ad esempio, se ci fosse lo Stato nella logistica. Così, come servirebbe nei nei trafori: perché non c'è nessuno e se per caso chiudessero, contingentandoli, il Brennero o il Frejus, l'economia di questo Paese salta.
Ma nel 1955 quando Saraceno si invento la concessione per fare la Milano-Roma: migliaia di miliardi da ripagarsi in 30 anni col pedaggio... che idea!
Io divento una belva quando lo attaccano per la filosofia ma ho capito anche qual'è stata l'origine dello sfascio: la corruzione politica, l'ho già detto.
L'Eni si difese meglio perché non c'era possibilità di attaccare Mattei e loro resistettero a non sporcarsi le mani con il gas e e l'elettricità, settori dove gli scandali colpirono gravemente l'Enel con la vicenda del Cnen e di Ippolito.
l'Eni non doveva chiedere allo Stato fondi di dotazione perché lavorava all'estero. L'Iri no, e quindi era a rischio. Inoltre, la progressiva mancanza di rischio imprenditoriale ci uccise: non fu mai ripetuta, ad esempio, la vicenda della costruzione di autostrade in concessione. L'unica a fare investimenti di rischio fu la Stet e, in parte, l'altra grande azienda a farlo fu la chimica che oggi è stata liquidata (ed era dell'Eni). Basta però andare in Sardegna per vedere la portata degli investimenti in chimica da parte dello Stato.
Io ho voluto bene a Saraceno anche se mi licenziò; ma lui ha finito la sua carriera con la costruzione del parcheggio di Villa Borghese a Roma, poca cosa.
La cultura cattocomunista di Dossetti, Lombardi e Morandi, quindi, ad un certo punto finisce: arriva la politica con la lottizzazione delle cariche.
E lì finisce il gruppo polisettoriale integrato: non più una strategia comune ma un impero con province autonome in cui l'Iri resta addirittura senza ispettorato.
Chi andava in Finsider a controllare? Nessuno.
L'Iri quindi si è scomposta: tutta la cultura del gruppo si andò perdendo. Una trasformazione non solo dell'Iri ma anche degli altri grandi gruppi della multisettorialità come la Fiat di Umberto Agnelli degli anni '70. Non funziona; in Italia non funziona. Forse perché siamo il Paese delle imprese monoprodotto, degli artigiani. Di fatto, le realtà diversificate diventano indipendenti e prive di una strategia comune.
Ad esempio, l'Iri mi mandò a fare un ispezione in Alfasud. Io quindi andai a Napoli da Cortesi che mi fece vedere tutti i plastici di questo mondo; mi fece fare il giro dello stabilimento; e pure, a 200 all'ora, il giro della pista di collaudo della fabbrica.
- «Ora può andare.
- «Come posso andare? Ma se non ho capito nulla?
- «De Rita, mi hanno detto di fargliela vedere l'azienda. Non di fargliela capire. Se ne torni a Roma».
L'Iri quindi non aveva più potere. Le singole realtà erano tutte a padrone. E spesso con un padrone molto più potente dei presunti controllori dell'Iri: il cui presidente si occupava solo di chiedere di aumentare il fondo di dotazione statale per gestire tutta questa baraonda.
Allora iniziò anche il declino anche nell'immagine pubblica delle Partecipazioni statali. Non c'è stata quindi solo l'accordo Andreatta-van Miert fra Stato e Commissione europea a far ridurre i fondi riconosciuti come aiuti di Stato; ma la stessa dimensione di un potere che non era più compatto.
In Enel, Eni, Stet, Finmeccanica e Fincantieri dove il potere invece era compatto, il crollo non c'è stato e queste oggi sono le uniche grandi imprese internazionali italiane.
Lo sfascio di immagine poi è stato così grande che quando hanno venduto, lo hanno fatto in modo straccione: la Stet è stata venduta 16mila miliardi con Ciampi ministro e Draghi direttore generale al Tesoro e Prodi capo del Governo -- tre mostri sacri di cui oggi non si può parlar male. Colaninno 2 anni dopo l'ha pagata a debito 60mila miliardi; e 2 anni dopo lo stesso Colaninno ha rivenduto per fare la plusvalenza a Tronchetti a 120mila miliardi che avendola comprata a debito oggi sta con l'affanno perché può solo ripagare i debiti.
Che significa? Che lo Stato ha venduto in modo straccione. E con Autostrade è stato lo stesso.
Da un anno e mezzo oggi Benetton fa profitti; ma quello che guadagna è il frutto degli investimenti dello Stato.
E se andate a vedere, troverete che i "furbetti del quartierino" in realtà volevano impadronirsi di Telecom per conto di una persona che ancora non è uscita fuori.
"L'uomo più liquido d'Italia ha cercato di fregarmi", ha detto Tronchetti. Io non so chi sia, posso immaginarlo; ma se Tronchetti lo dice significa che lo sa. E non sono forse quelli che più hanno enfatizzato la caduta di immagine delle Partecipazioni statali che poi hanno comprato a due lire? Certo. Ma dobbiamo ammettere che la caduta fu anche culturale: non se ne poteva più.
La coppia Glisenti-Fabiani in Finmeccanica, ad esempio, sembrò come una liberazione perché loro non avevano vincoli politici. Ma un fattore decisivo al crollo è stata l'entrata nel settore delle costruzioni: Italstat e le sue controllate. Fino ad allora lo Stato non aveva costruito direttamente.
Probabilmente a Palermo lo capite subito come si opera nel settore delle costruzioni: questo lo paghiamo; poi lo vendiamo; poi lo affittiamo; e poi lo cartolarizziamo...
Tutto questo meccanismo perverso nasce con la cultura non più monodirezionale (io costruttore pago il politico per il permesso e per quello che mi serve). Ma nasce invece l'intreccio permanente politico-costruttore.
L'intreccio dei furbetti del quartierino è lo stesso intreccio, la stessa cosa. Politica e affari gestite con una spregiudicatezza ed un'autonomia che eliminano a monte la possibilità del controllo. Se questa estate non c'era Guido Rossi che prendeva il dossier Antonveneta e lo portava al suo amico pm Greco non succedeva niente.
E quando le cose diventano penali non si salva nessuno perché non c'è più tessuto sociale e di potere: ci sono solo alcuni gruppi che comandano (in questo caso, il settore delle opere pubbliche).
Allora porto le carte in tribunale che può essere un porto delle nebbie, o funzionare. Ma che significa che non c'era più Iri o cultura dello sviluppo generale.
Ogni tanto vado da Ettore Bernabei: lui descrive l'Italia come un grande gruppo massonico. Certo, esagera. Però lui ha veramente vissuto una cultura in cui il rapporto di potere era sempre nascosto. Quando era all'Italstat aveva trovato gli accordi con le altre grandi imprese di costruzioni, lo Stato finanziava e loro costruivano.
Ma quella era proprio la cultura opposta alla cultura elitaria dell'Iri di Saraceno. Se tutto è sommerso, deciso, nascosto: a cosa servono gli studi, la cultura e la pianificazione? Ettore mi guarda e mi dice: 'guarda quella finestra. Lì c'è il grande massone del quartiere che ci guarda... e ve lo dice pure in modo convincente...' Uno straordinario vecchio di 85 anni, Bernabei!...
Oggi restano in piedi l'Eni e l'Enel che versano soldi allo stato -- rispettivamente 6 mld e 4.5 miliardi di euro ogni anno sotto forma di dividendi. Resta Finmeccanica: Guarguaglini sarà anche messo lì da An ma l'azienda funziona bene. Poi c'è Fincantieri. E il resto è stato venduto.
Una realtà, quella delle Partecipazioni statali, che quindi non ha creato una dimensione intermedia adeguata; perché al di là di questi grandi soggetti, c'è poco.
C'è la piccola impresa che però non ci consente di fare competizione internazionale. Ma se si prendono Telecom? E se il più liquido di cui parlava Tronchetti fosse Bolloré?
E se si prendono le banche perché noi abbiamo fatto i giochetti, ci ritroveremo in una situazione in cui non abbiamo alcuna soggettualità nuova dato che le Partecipate statali sono le sole aziende che funzionano oggi, o perché ex o perché ancora tali.
Dove stanno i Falck? E gli Olivetti? E i Pirelli, che resistono alla scalata di Teleccom? Dove sono?
Dov'è De Benedetti? Chi ha portato Olivetti fuori dal listino? Dove sono questi grandi liberal che ci hanno garantito che sarebbe andata bene affidandoci al mercato?
Questo significa -- e qui esce fuori la mia cultura cattocomunista esce fuori -- che ad esempio nel mare, nel trasporto del cabotaggio e nella siderurgia sarebbe potuto uscire qualche soggetto che non è mai emerso. Mentre oggi proprio in questi settori lo Stato potrebbe esprimere questa soggettualità.
C'è tutto da ripensare. Recentemente, ho incontrato in aereo Nicola Rossi, l'economista che D'Alema si portò a Palazzo Chigi, che ha scritto un piccolo libro di grande spessore: l'ho letto e sono rimasto sconvolto e ora lo presentiamo insieme al Cnel.
Dal 1998 al 2004 nel Mezzogiorno sono stati spesi 124mila miliardi di lire di cui 55mila come cifra straordinaria. La cifra è pari alla dotazione di 8 anni della Casmez ed è pari al 40% dei 40 anni di dotazione della Casmez. Ma dove stanno questi soldi? Nei teatri e nei rifacimenti dei marciapiedi?
E guardate che in questi anni, una parte dei soldi è stata spesa dal Governo di centrosinistra e un'altra dal centrodestra. Il direttore generale era ed è lo stesso.
Intervenire e non vedere il frutto. Perché è tutto disperso nel clientelismo e nel malaffare. Dicevo a Rossi che a quel punto è meglio ripensare le Partecipazioni statali e ad un governo delle risorse che non sia così demenziale. Altrimenti, chi lo fa lo sviluppo del Sud se non c'è una partecipazione pubblica significativa?
Chi la fa la logistica con i porti e gli interporti? Chi la fa, la modernizzazione senza lo Stato? Se chiudono il Frejus o il Brennero siamo fottuti. E chi li fa i trafori? I privati? Chi ha quella cultura dell'innovazione che ha fatto grande il Paese fra il 1945 e il 1955 dei miei predecessori e poi fino al '63 e al primo Governo di centrosinistra.
E invece tutti noi; penso a Giuliano Preziosi capo della Stet degli anni '50; e recentemente pure gli uomini dei partiti in Iri come Pini o Armani che rappresentavano gli uomini di Craxi e dei repubblicani, diciamo che è finito tutto nella maniera più orribile.
Hanno dato alla Fondazione Iri 250 miliardi di lire per raccontare la storia delle Partecipazioni Statali, che è una bella dotazione per una Fondazione. Ma loro non hanno speso una lira. La realtà economica che è stata la più significativa del dopoguerra italiano; quella che ha portato più frutti. E nessuno ne parla. Tutto scomparso nel nulla.
Personalmente mi sono occupato di sociale; mi sono fatto la mia aziendina; ma questo è il segno di una cultura che prima distrugge tutto e poi non sa cosa fare.
Bene il mercato. E poi? Davvero questo è un Paese che non ha bisogno di soggetti pubblici? 55mila miliardi di intervento straordinario buttati in 6 anni?
E poi? Che rapporto possono trovare con lo Stato gli emergenti come Della Valle o Moretti Polegato che cercano un rapporto? Davvero il "barchismo" (dal nome di Fabrizio Barca, direttore delle politiche di sviluppo del Meridione al Tesoro, NdA), come lo chiamo io, con lo sportello per gli imprenditori locali che fanno solo clientelismo è la risposta che gli sappiamo dare?
E poi, dicono, 'abbiamo imparato a spendere i soldi. Noi abbiamo speso tutti i soldi comunitari'...
Ma se li avete buttati! Non si sa cosa ne avete fatto!
Ritorniamo cioè ad una cultura arcaica dello sviluppo in cui lo Stato deve essere depredato e dare i soldi a sportello. Ma dare i soldi non è un modo degno di chiamare in causa lo Stato nello sviluppo. E fino a quando -- prima sputtanando e poi comprando -- Carlo De Benedetti e questi del Partito Democratico continuano a dire che tutto deve essere privatizzato, non ci sarà alcun nuovo sviluppo.
Vedete, io non sono un pessimista; ma un ottimista di natura. Guardo con un po' di sospetto a quelli come gli inglesi dell'Economist che mi vengono a dire che in Italia tutto è una schifezza e poi si comperano tutto a 2 lire. Certo, magari non come fece la Fiat che con lo 0.48% si era comprata la Telecom. Magari in modo più pulito: ma sul giornale, ieri, c'era l'elenco delle banche di affari estere che fanno la fila per fare affari in Italia.
Noi rispondiamo con il finanziamento del country club in Abruzzo in cui, in altura, stanno a fare la terza buca... Stiamo ritornando ai primi anni della Casmez quando rispetto alle bonifiche e alle strade, vinceva il deputato che andava alla Cassa che si faceva finanziare l'asilo nido, la strada e l'ospedale.
«Noi ci abbiamo la passeggiata a mare»... «E noi il teatro romano»... E lo dico da profeta dello sviluppo dal basso con le piccole imprese che stanno crescendo come i fili d'erba del nuovo sviluppo. Tutti mi conoscono per questo. Quella motivazione che spinse Beneduce a fare l'Iri e la classe dirigente del dopoguerra non c'è più e bisogna dire con grande tranquillità che alcune cose devono essere studiate e riprese.
L'iri nasce come Comit + Banca di Roma + Credito Italiano (le 3 Banche di interesse nazionale) + il Santo Spirito: Andate a vedere a quanto sono state vendute le grandi banche. E come oggi siano di nuovo il più grande potere del Paese dopo che dal 1936 alla fine degli anni '90 erano state tenute fuori dalle imprese.
Anche lì dove c'era l'interesse a fare e ad essere Bin, non è rimasto niente. Sono ammiratore di Profumo, Passera e Bazoli però non abbiamo ancora un'idea di cosa significhi essere una banca di interesse nazionale; e invece ce l'avevano quando erano banche Iri e c'era Beneduce.
Perché allora la commistione va bene quando tutto è in mano al privato e invece di fare politiche bancarie di interesse nazionale devo spendere 55mila mld in opere pubbliche -- solo come straordinario -- per fare marciapiedi?
Tutto sommato una storia della Partecipazioni statali potrebbe portare a una rivisitazione e ad una valorizzazione nuova della presenza dello Stato nell'economia.
Senta, io quest'anno ho insegnato in Francia dove, esattamente come in Germania, le grandi imprese e le grandi banche sono tutte dello Stato. I francesi hanno una grande Scuola nazionale di amministrazione (l'Ena). In Italia, invece, abbiamo due piccole Università private agli ultimi posti nelle classifiche internazionali delle scuole manageriali e come dice il grande economista Marco Vitale il problema di questo Paese è il management, il management, il management. Perché non avete fatto un istituto nazionale di management? Com'è possibile che nel 2006 l'Italia ne sia ancora priva?
Mha, tutte le imprese statali le scuole se le sono fatte da sole, la scuola di management: l'Iri aveva la sua scuola progettata nel '58 e nel '59 da Felice Balbo che poi si è andata deperendo. La Banca di Roma aveva il centro dell'Olgiata e la Comit il centro di Varenna sul lago. Anche l'Eni aveva la sua che poi si è spenta perché non avevano più bisogno di manager nazionali; l'Isvor della Fiat è stata la prima cosa ad essere tagliata quando è arrivata la crisi. Ma l'Istituto italiano di management era stato progettato e doveva essere la Scuola superiore della pubblica amministrazione nata con il governo Moro, ministro Giuseppe Medici: qualcosa di diverso da quella che avete qui a Monte Pellegrino o dalla Stoà di Napoli. Si era già pensato alla Reggia di Caserta e a farci la Scuola. Lo dico perché ero nel comitato scientifico con Martinoli, il più grande esperto di organizzazione e management d'Italia. Dopo 6 mesi di rottura di scatole ci dimettemmo perché i professori universitari di diritto costituzionale volevano essere i padroni; e ancora oggi in via Diaz a Roma presso la sede della Scuola ci sono loro. Nel '64-'65 la battaglia fra questi dodici professori e noi 2 amici del ministro finì male. L'Ena qui da noi non è possibile perché scatta automatico il corporativismo dei docenti di diritto. Nel 1964 noi parlavamo di macroeconomia e loro dicevano: 'ma che è 'sta macroeconomia?' E questo quando il Banca d'Italia avevano già fatto il loro, di modello macroeconomico. Se volevamo fare i seminari andava bene, ma niente insegnamenti. In questo sono d'accordo con Giavazzi: le corporazioni nel nostro Paese sono invincibili. Ancora oggi, se mi chiamassero a far parte da un comitato per la costituzione della scuola mi chiamerei fuori.
Condivido in pieno questa analisi le sono grato per questa mattinata illuminante. Vorrei completare con qualche concetto visto che sono un chimico e siamo tutti coinvolti qui nella ricerca. Lei ha citato Olivetti e Pirelli; e io ricordo che erano realtà mondiali che oggi sono dissolte. Secondo me è stata la mancanza di innovazione. Lei è d'accordo?
Vede professore, l'Olivetti è stata la più grande innovatrice che noi abbiamo avuto. Avevano introdotto per primi la catena di montaggio con i 3 grandi direttori tecnici -- Pero, Martinoli e Martinez -- Quando Adriano tornò se li levò dai piedi perché l'azienda se la voleva gestire da solo. Morto Adriano, che aveva lavorato così bene, provarono il passaggio all'elettronica in cui il figlio Roberto credeva moltissimo. Fino ad un momento di crisi quando ci fu una trattativa con la Underwood americana. C'era ovviamente un problema di finanza e quindi fu richiesto l'aiuto dell'Iri: entrate in partecipazione? All'Iri ci fu uno scontro fra una cordata di Roberto Olivetti e un'altra cordata governata da Visentini; e vinse Visentini. Da quel momento Olivetti non è più esistita: fino a De Benedetti e Colaninno.
Questo è un modo di guardare le cose: l'innovazione è estremamente costosa per cui la piccola impresa ci rinuncia in partenza perché se la compra in licenza. La media non sa come farlo; e la grande in Italia è talmente impegnata sul piano finanziario che non la può fare. E' un sistema finanzo-diretto e dobbiamo tenerne conto perché se non abbiamo il gusto di saper fare finanza, non andiamo da nessuna parte. Noi al Censis abbiamo un autonomia finanziaria totale: abbiamo bisogno di 10-12 miliardi di lire l'anno e ce li facciamo sul mercato. La media azienda non ha la cultura finanziaria e quindi non trova i 500 miliardi necessari alla ricerca. Negli anni '60 c'era il fondo Imi che serviva a finanziare la ricerca. Oggi invece, sia che si parli di Opa che di furbetti o di ricerca universitaria, assistiamo ad un vincolo finanziario che tutti ci opprime.
Perché nel Rapporto 2005 avete scritto che siamo fuori dalla crisi?
Nel 2004 vedevamo che l'italiano si era rivolto solo alla ricchezza mobiliare ed immobiliare, aumentando in modo stratosferico la ricchezza degli immobiliaristi: 4 milioni di case vendute in 4 anni. In più investimenti in azioni, polizze assicurative, fondi e Bot, incluso il cash: 28 milardi in biglietti tenuti a casa. Vogliono i soldi cash e non si sa cosa ne facciano.
La ricchezza totale dell'Italia è pari ad 8 volte il Pil: nella media europea è 3 volte il Pil; e in Usa 4 volte. Siamo cioè i più ricchi del mondo: però abbiamo sacrificato tutti gli investimenti in produzione ed innovazione. Il consumo e gli investimenti produttivi stagnano. Fossimo un'azienda, saremmo fermi.
Nel 2005 abbiamo notato un rallentamento nell'acquisto di case e una piccola tendenza all'aumento di investimenti e consumi. Cosa succederà non lo sappiamo. Ma due cantoni su quattro si sono riattivati. Qualcosa si sta muovendo. Il motivo forse è che il livello di sicurezza è raggiunto; e si cerca di fare qualcosa di dinamico per tornare a crescere.
Dal suo raccontare si evidenzia che c'è sempre un gioco di potere. Ma il potere viene determinato dalla politica: perché allora hanno il consenso? Dico io: come mai una mente come De Rita non si occupa solo di ricerca ma anche di economia e di politica?
Io devo a Pannella, e gliel'ho anche detto, se non ho mai fatto politica. Nell'ottobre del '50 partecipai ad un'assemblea in cui lui dava e levava la parola, gridava e faceva il solito casino. Allora mi sono detto che se quella era la politica non l'avrei fatta mai. Inoltre, non ho una lira e non ho nessun potere mediatico. L'altro ieri sera sono stato a cena con Mieli e Fassino -- questi due uomini politici -- e parlavo di come tutto nella politica di oggi finisce per incancrenirsi.
La politica odierna ha una triplice dimensione: mediatica, finanziaria e locale-clientelare.
Mediatica, e lo vedete con presidente del Consiglio. Finanziaria, perché vi servono i soldi, un sacco di soldi, per pagarvi la dimensione mediatica della pubblicità. Non c'è niente da fare. E' Fassino che chiede a Consorte: "ce l'abbiamo, allora, la banca?"
E poi c'è la dimensione che voi soffrite più direttamente qui in Sicilia, quella locale-clientelare. Il governatore che a Roma non conta nulla e allora si costruisce la sua rete sul territorio con la speranza di arrivare a controllare 20 o 30 deputati e risultare determinante. Naturalmente, non ce la farà mai. La politica resta presa in mezzo senza riuscire a governarne nessun lato del triangolo: tutto procede in modo indipendente senza una strategia e una cultura di fondo. Un corto circuito che porta, e lo vedete, alla paralisi.
Giuseppe De Rita, "Il 40esimo Rapporto Annuale" (2006). Ettore Bernabei con Giorgio Dell'Arti, L'uomo di fiducia (1999).
(2002). Censis,Le
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